Welfare Aziendale

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Congedo matrimoniale, tutto quello che c'è da sapere
Maggio 09, 2022
Welfare Aziendale

Congedo matrimoniale, tutto quello che c’è da sapere

Quando due persone si sposano, se dipendenti, entrambi hanno diritto di usufruire di un periodo di congedo di 15 giorni, chiamato congedo matrimoniale.  Vuoi saperne di più su questo periodo di congedo a cui ha diritto chi si sposa? Su come e quando richiederlo e come usufruirne? In questo articolo ti spieghiamo tutto quello che c’è da sapere sul congedo matrimoniale.  Cosa si intende per congedo o licenza matrimoniale e come funziona? Quando è possibile usufruire del congedo matrimoniale? Quanti giorni di congedo matrimoniale spettano e come si calcolano? È possibile posticipare il congedo matrimoniale? Il datore di lavoro può rifiutarsi di concedere il congedo matrimoniale? Il congedo matrimoniale è obbligatorio?  Quali documenti vanno prodotti al datore di lavoro? Unione civile e congedo matrimoniale Assegno per congedo matrimoniale INPS: come funziona?    Cosa si intende per congedo o licenza matrimoniale? Conosciuto più comunemente con il nome di licenza matrimoniale, il congedo matrimoniale è un periodo di congedo retribuito che spetta per legge ai lavoratori dipendenti che contraggano matrimonio civile o un’unione civile. Entrambi i componenti della coppia possono richiederlo, purché siano in possesso dei requisiti richiesti.  La legge che istituisce e regola il congedo matrimoniale risale al 1937, anno in cui fu emanato il R.D.L. 1334, il quale stabiliva che avessero diritto a questo periodo di ferie solo i lavoratori appartenenti alla classe impiegatizia. Poi, nel 1941, questo diritto venne esteso anche alla classe operaia.   Quando è possibile usufruire del congedo matrimoniale? È possibile usufruire del congedo matrimoniale quando si contrae un matrimonio civile, in quanto si tratta di un istituto di natura civilistica. Anche se non si contrae matrimonio religioso o ci si sposa per la seconda volta, perciò, si può usufruire dei giorni di riposo previsti dalla licenza matrimoniale.  Possono richiedere questo periodo di astensione dal lavoro anche i lavoratori extracomunitari che si siano sposati all’estero, purché risultino residenti in Italia al momento del matrimonio e acquisiscano lo stato civile di coniugati anche nel nostro Paese.  Il congedo matrimoniale è ormai entrato a far parte dei Contratti Collettivi Nazionali (CCNL) di tutti i settori. Hanno diritto ad usufruirne:  i lavoratori dipendenti di cooperative, aziende industriali e artigiane;  gli operai;  gli apprendisti;   i lavoratori a domicilio;  i marittimi di bassa forza;  i disoccupati che possano dimostrare di aver lavorato per almeno due settimane nei 90 giorni precedenti il matrimonio;  i lavoratori con contratto a tempo determinato, purché ne usufruiscano prima del termine del contratto.  In quali casi non è possibile richiedere il congedo matrimoniale?  Non si può richiedere il congedo matrimoniale se i giorni di assenza dal lavoro coincidessero con un periodo di ferie e neanche durante il tempo di preavviso di licenziamento.    Quanti giorni di congedo matrimoniale spettano e come si calcolano? In base a quanto stabilito dai vari CCNL, un lavoratore ha diritto a usufruire di 15 giorni di congedo matrimoniale.  Si tratta di un periodo di astensione dal lavoro non frazionabile, che ha decorrenza a partire dal giorno del matrimonio (anche se è possibile chiedere che inizi qualche giorno prima del matrimonio) e comprende nel computo dei giorni anche eventuali sabati, domeniche o festività che dovessero coincidere con esso.  Alcuni contratti collettivi, come il CCNL Commercio, prevedono che il lavoratore usufruisca del congedo matrimoniale a partire dai 3 giorni precedenti il matrimonio.    È possibile posticipare il congedo matrimoniale? Secondo quanto stabilito dalla legge, un lavoratore può chiedere di usufruire del congedo matrimoniale entro un massimo di 30 giorni dal matrimonio.  È possibile richiederlo oltre i 30 giorni dal matrimonio solo se non gli è stato concesso nel tempo previsto per motivazioni che non dipendono direttamente da lui. In altre circostanze, se il lavoratore volesse usufruire del congedo matrimoniale trascorso il termine dei 30 giorni, dovrebbe accordarsi in anticipo con il datore di lavoro. Secondo una sentenza della Corte di Cassazione emessa nel 2012, non ci sono impedimenti perché una persona non possa richiederlo successivamente.    Il datore di lavoro può rifiutarsi di concedere il congedo matrimoniale? Se il lavoratore è in possesso di tutti i requisiti necessari e presenta la richiesta di congedo matrimoniale entro i termini indicati dalla legge, il datore di lavoro non può rifiutare di concederlo. Potrebbe decidere di posticiparlo, ma solo per comprovate necessità produttive.    Il congedo matrimoniale è obbligatorio? Tutti i lavoratori in possesso dei requisiti hanno diritto a richiedere il congedo matrimoniale ma nessuno può obbligarli ad usufruirne. Nel caso un lavoratore decida di non godere di questo beneficio, il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli un’indennità pari al numero di giorni di congedo previsti dalla legge.  Anche nel caso il lavoratore riprenda a lavorare prima dello scadere dei 15 giorni, il datore di lavoro è tenuto a corrispondergli un’indennità pari al numero di giorni residui non goduti.    Quali documenti vanno prodotti al datore di lavoro? Per ottenere il congedo matrimoniale si deve presentare una richiesta scritta al datore di lavoro con un preavviso di almeno 6 giorni rispetto alla data del matrimonio (anche se è meglio presentare la richiesta con un anticipo maggiore).  Entro 60 giorni dal rientro al lavoro, inoltre, è necessario fornire all’azienda copia del proprio certificato di matrimonio. Nel caso in cui il documento non fosse ancora pronto alla scadenza del termine, i lavoratori possono produrre un’autocertificazione che attesti la celebrazione del matrimonio civile; anche lo stato di famiglia può essere accettato in sostituzione del certificato di matrimonio.  Oltre al certificato di matrimonio, entro 60 giorni dalle nozze è necessario presentare anche il modulo per la richiesta dell’assegno per congedo matrimoniale dell’INPS.    Unione civile e congedo matrimoniale Con l’entrata in vigore della Legge Cirinnà (Legge n° 76 del 20 maggio 2016) alle persone dello stesso sesso che contraggono un’unione civile sono stati riconosciuti gli stessi diritti di chi contrae un matrimonio civile.  Perciò, anche i lavoratori che contraggano un’unione civile hanno diritto al congedo matrimoniale. Questo diritto è ribadito anche da una circolare INPS del 2017.   Assegno per congedo matrimoniale INPS: come funziona? L’assegno per il congedo matrimoniale erogato dall’INPS è un’indennità che copre una parte dei giorni di congedo spettanti al lavoratore e, solitamente, viene erogato in busta paga a meno che chi ne abbia fatto richiesta non sia disoccupato.  Ecco a quanto corrisponde: per operai e apprendisti: 7 giorni di retribuzione (ma dalla retribuzione giornaliera va detratta una percentuale del 5,54% - rimane, infatti, a carico del lavoratore);  per i lavoratori a domicilio: 7 giorni di guadagno medio giornaliero (e anche in questo caso, come nel precedente, rimane la percentuale del 5,54% a carico del lavoratore);  per i marittimi: 8 giorni di salario medio giornaliero (e anche in questo caso, come nel precedente, rimane la percentuale del 5,54% a carico del lavoratore); per chi ha un contratto di lavoro part-time verticale: i giorni di retribuzione che coincidono con quelli previsti dal contratto (ma va sempre detratta una percentuale a carico del lavoratore). Il resto dei 15 giorni di congedo matrimoniale viene retribuito direttamente dal datore di lavoro.  Casi particolari L’assegno è cumulabile con l’indennità INAIL per infortunio sul lavoro fino al raggiungimento dell’importo che sarebbe spettato a titolo di retribuzione.  Non è, invece, cumulabile con le prestazioni di: malattia, maternità, cassa integrazione e trattamenti di disoccupazione. In questi casi, di solito, al lavoratore viene corrisposto l’assegno per il congedo matrimoniale in quanto più favorevole.
Tassazione dei fringe benefit
Gennaio 10, 2022
Welfare Aziendale

La tassazione dei fringe benefits

Sono sempre di più le aziende che sviluppano piani di welfare aziendale che comprendono l’erogazione di fringe benefits. Scopri se, quando e come vengono tassati. Considerati come benefici in natura, i fringe benefits sono beni e servizi alternativi alla retribuzione in denaro che finiscono comunque in busta paga. Ecco tutto quello che c’è da sapere sulla loro tassazione. I fringe benefits sono tassati? Casi di esclusione dalla tassazione Qual è la normativa in fatto di tassazione dei fringe benefits? Fringe benefits in busta paga I fringe benefits sono tassati? Secondo il principio di omnicomprensività stabilito dal comma 1 dell’articolo 51 del TUIR qualsiasi bene, servizio o somma di denaro che il datore di lavoro abbia attribuito al dipendente deve necessariamente risultare in busta paga. Quindi tutti i fringe benefits, che sono delle agevolazioni concesse da un’azienda ai propri dipendenti, devono essere indicati in busta paga. Ciò vuol dire che verranno tassati? La risposta a questa domanda è quasi sempre sì. La maggior parte dei fringe benefits è considerata parte del reddito accumulato dal lavoratore nel corso dell’anno d’imposta e quindi viene assoggettata a tassazione INPS e IRPEF. Diciamo quasi sempre perché ci sono dei casi in cui i fringe benefit sono esclusi dalla tassazione, e altri in cui le tasse sono dovute solo per una parte del valore del bene o servizio accessorio erogato dall’azienda al proprio collaboratore. Per calcolare correttamente le imposte dovute sui fringe benefit, bisogna anche tenere conto della differenza tra la base contributiva e la base retributiva. Per quanto riguarda il versamento dei contributi, infatti, esistono delle soglie oltre le quali un bene o servizio non è più tassabile. Per il versamento dell’imposta sui redditi, invece, può diventare imponibile l’intero valore del bene, a meno che esso non sia compreso tra i casi di esclusione totale o parziale. Solitamente, è il datore di lavoro che inserisce i fringe benefit in busta paga e si occupa di trattenere alla fonte la quota dovuta per il pagamento delle imposte. Tuttavia, anche per il dipendente è importante conoscere sempre il valore del fringe benefit che viene erogato e i casi in cui esso può essere escluso totalmente o parzialmente dalla tassazione. Casi di esclusione dalla tassazione Anche se la maggior parte dei fringe benefits viene tassata, ci sono diversi casi in cui essi sono esenti in maniera totale o parziale dall’imposizione fiscale. Come per il principio di omnicomprensività, anche in questo caso a venirci in aiuto per farci capire quali sono i casi in cui i fringe benefit sono esclusi dalla tassazione è l’articolo 51 del TUIR, che elenca tutti i casi in cui essi sono esenti dal rientrare nella base imponibile per il pagamento delle imposte. Vediamo quali sono i principali casi di esclusione dei fringe benefits dal pagamento delle tasse, tenendo anche conto dell’aggiornamento del TUIR alla legge di bilancio 2021: i contributi previdenziali versati e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza agli obblighi di legge, e i contributi di assistenza sanitaria versati ad enti che hanno esclusiva finalità assistenziale fino a un importo massimo di 3615,20; la somministrazione di vitto da parte del datore di lavoro all’interno di mense aziendali gestite direttamente dall’azienda o da soggetti terzi; la prestazione di servizi di trasporto collettivo offerta alla collettività o a una sola categoria di dipendenti, anche se affidata ad aziende di trasporto pubblico; le somme erogate o rimborsate per l’acquisto di abbonamenti ai mezzi di trasporto pubblico alla collettività dei dipendenti o a una parte di essi o ai loro familiari; tutte le somme, i servizi e le prestazioni erogati dalle imprese alla generalità o a una parte dei dipendenti per far sì che i loro familiari possano avere accesso ai servizi di istruzione (anche scuole dell’infanzia), ai servizi di mensa ad essi collegati, alle ludoteche, ai centri estivi e doposcuola; le borse di studio erogate ai familiari dei dipendenti; le assicurazioni stipulate dall’azienda contro il rischio di infortuni a carico del lavoratore; il valore delle azioni in stock option a condizione che rimangano in possesso del dipendente per almeno 3 anni. Questi sono i principali casi di esclusione totale dei fringe benefits dalla tassazione. Ci sono, poi, altre agevolazioni che concorrono solo in parte a formare il reddito imponibile. Tra le più importanti ci sono: i buoni pasto; l’auto aziendale ad uso promiscuo (se l’auto è ad esclusivo uso aziendale è invece totalmente esente dalla tassazione); i prestiti a tasso agevolato erogati dal datore di lavoro ai collaboratori; i fabbricati concessi in locazione, in uso o in comodato; i rimborsi spese. Qual è la normativa in fatto di tassazione dei fringe benefits? La normativa di riferimento per la tassazione dei fringe benefits è il TUIR (il Testo Unico sull’Imposta dei Redditi), emanato con il Decreto del Presidente della Repubblica n° 917 del 22 dicembre 1986 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre dello stesso anno), di cui ogni anno viene approvata una versione aggiornata all’attuale legge di bilancio. L’articolo 51 del TUIR comma 3, in particolare, stabilisce anche quali siano i fringe benefits che rientrano nel reddito imponibile e i casi di deducibilità totale o parziale. Esonero dei fringe benefit dalla tassazione   Secondo quanto stabilito dalla legge: tutti i beni o servizi erogati dal datore di lavoro ai dipendenti sotto forma di contributo liberale, compresi voucher, buoni sconto e omaggi aziendali (sono esclusi i buoni pasto) nel medesimo anno di imposta, sono esonerati dal concorrere alla formazione del reddito da lavoro dipendente per un importo complessivo di 258,23 euro (aumentato a 2000 € per dipendenti con figli fiscalmente a carico e a 1000 € per tutti gli altri, limitatamente all'anno 2024) Anche i buoni pasto sono esclusi dalla tassazione, ma solo nel caso in cui non siano di importo superiore ai 4 euro per quanto riguarda i buoni cartacei, e agli 8 euro per i buoni elettronici. In caso vengano erogati al lavoratore buoni di importi maggiori, la parte eccedente i limiti fissati dalla legge concorrerà a formare il reddito imponibile. Valore normale e valore convenzionale Al fine di inserire correttamente in busta paga gli importi che formano il reddito da lavoro dipendente, è importante conoscere con certezza il valore del bene. Nella maggior parte dei casi, si considera come base imponibile il valore normale del bene (art. 9 del TUIR), che consiste nel prezzo praticato in media per la sua vendita. Ci sono poi alcune eccezioni, come le auto aziendali ad uso promiscuo, gli immobili offerti al dipendente e i prestiti in cui la base imponibile è data da un valore convenzionale. Fringe benefits in busta paga La quota di fringe benefits che finisce in busta paga e, quindi, viene tassata, nella maggioranza dei casi non costituisce l’intero valore del benefit. Tra i casi più comuni di tassazione in busta paga dei fringe benefits ci sono: l’auto aziendale; i prestiti concessi ai dipendenti; le abitazioni concesse in affitto ai collaboratori. Nel primo caso, quello dell’auto aziendale, la somma che andrà inserita in busta paga viene stabilita servendosi di un costo chilometrico convenzionale, che è contenuto in apposite tabelle aggiornate ogni anno dall’ACI. Per quanto riguarda i prestiti concessi ai dipendenti, la somma da inserire in busta paga è pari al 50% della differenza tra l’importo degli interessi calcolato al tasso ufficiale di riferimento (TUR) e l’importo degli interessi calcolato in base al tasso agevolato applicato dall’azienda. Se ad un dipendente viene concessa un’abitazione in affitto, la somma che verrà indicata in busta paga è pari alla differenza tra rendita catastale + spese di gestione del fabbricato e il canone di affitto versato dal lavoratore.     Esempio di tassazione dei fringe benefits in busta paga Vediamo un esempio concreto di come i fringe benefits erogati al lavoratore dipendente vengono contabilizzati in busta paga. Uno dei fringe benefit più diffusi in assoluto è costituito dai buoni pasto. Mettiamo il caso che un dipendente riceva dal suo datore di lavoro dei buoni pasto elettronici del valore di 11,50 euro. La parte che eccede gli 8 euro giornalieri sarà assoggettata al versamento dei contributi e delle tasse. Ipotizziamo che i buoni pasto gli siano stati riconosciuti per 20 giorni nel mese di marzo. Questa sarà la sua ipotetica busta paga: retribuzione lorda euro 1.850,00; quota assoggettabile a tassazione                               3,5 euro x 20 giorni = euro 70,00. Ai fini del calcolo dei contributi INPS la retribuzione da prendere in considerazione sarà pari alla retribuzione lorda sommata alla quota dei buoni pasto assoggettabile a tassazione, quindi: 1.850,00 + 70,00 = 1.920,00. Applicando a questa base imponibile l’aliquota INPS del 9,19 % si ottiene un importo di 176,44 euro, che andrà inserito in busta paga come quota contributiva da versare. Questo per quanto riguarda la contribuzione. Adesso bisogna calcolare l’IRPEF, cioè l’imposta sul reddito da lavoro dipendente. La base imponibile per il calcolo dell’IRPEF è data dalla somma del reddito lordo alla quota di buoni pasto assoggettabile a tassazione, a cui si sottrae l’importo dovuto per i contributi INPS, quindi: (1850 + 70) – 176,44= 1743,56 La base imponibile per l’IRPEF è quindi di euro 1743,56. Su di essa viene calcolato l’importo dell’IRPEF lorda, a cui vanno poi sottratte le detrazioni per lavoro dipendente e gli eventuali carichi di famiglia per ottenere l’IRPEF netta. Supponendo che l’IRPEF netta (IRPEF lorda – detrazioni) sia pari ad euro 233,50, la busta paga del dipendente comprensiva di fringe benefit sarà così composta.     Retribuzione lorda euro 1.850,00 Buoni pasto non esenti euro 70,00 Contributi INPS Euro 176,44 IRPEF netta 233,50 Netto a pagare 1510,06 Tassazione fringe benefit: le novità del 2024   Nel 2024 la novità più importante è stata l’aumento della soglia di esenzione dalla tassazione per i fringe benefit, limitatamente a questo anno. La soglia passa a 2000 € per dipendenti con figli fiscalmente a carico e a 1000 € per tutti gli altri. In aggiunta a beni e servizi, il datore di lavoro potrà rimborsare anche le spese per le utenze domestiche - luce, acqua e gas naturale (no GPL) – e le spese per l’affitto e gli interessi del mutuo sulla prima casa.
Orario di Lavoro Flessibile: cos'è e quali sono i benefici
Agosto 05, 2021
Welfare Aziendale

Orario di lavoro flessibile: cos’è e quali sono i benefici di questa modalità?

Una misura di welfare aziendale sempre più diffusa, molto apprezzata da lavoratori e aziende. Scopriamo le ragioni del suo successo.   Uno dei benefit più richiesti dai lavoratori è la possibilità di usufruire di una maggiore flessibilità di orario. Possibilità che sempre più aziende decidono di concedere ai propri dipendenti perché vantaggiosa tanto per l’azienda quanto per i collaboratori. Ma quando è possibile concedere a un lavoratore un orario di lavoro flessibile, e secondo quali modalità? Te lo spieghiamo in questo articolo. Orario di lavoro: cosa dice la legge? Orario flessibile, orario rigido o orario multiperiodale: quali sono le differenze? Cosa vuol dire flessibilità oraria? Come funziona nella pratica Quali sono i benefici dell’orario flessibile Piani di welfare: la soluzione per gestire il welfare aziendale Orario di lavoro: cosa dice la legge? La legge n°196 del 24 giungo 1997 stabilisce che il normale orario di lavoro debba essere di 40 ore settimanali. Nell’articolo 13 è poi indicata la possibilità di stabilire anche limiti inferiori o superiori (basta non superare le 48 ore settimanali), purché ciò avvenga attraverso la contrattazione collettiva nazionale di riferimento per ciascun settore. Per quanto riguarda l’orario di lavoro giornaliero, invece, non ci sono limiti ben definiti, anche se è stato stabilito che ogni lavoratore abbia diritto ad almeno 11 ore di riposo consecutivo. Orario flessibile, orario rigido o orario multiperiodale: quali sono le differenze? A decidere l’orario giornaliero dei propri collaboratori è sempre il datore di lavoro. In base alle esigenze organizzative dei vari settori di un’azienda si può decidere di adottare un orario: rigido. Solitamente viene adottato in tutti quei casi in cui, per rispettare le esigenze produttive, il lavoro debba necessariamente iniziare e terminare a un determinato orario. È il caso, ad esempio, di chi lavora come addetto alla catena di montaggio, o come autista dei mezzi pubblici; flessibile. In tutti gli altri casi, spesso si dà la possibilità ai lavoratori di iniziare e terminare la giornata lavorativa entro una precisa fascia oraria (ad esempio iniziare a lavorare dalle 07:30 alle 8:30 e uscire dal lavoro dalle 17:00 alle 18:00; multiperiodale. Questa modalità di lavoro viene adottata dalle aziende che, in alcuni periodi dell’anno, devono far fronte ad una maggiore richiesta e hanno quindi necessità che i suoi collaboratori lavorino qualche ora in più (si pensi ai supermercati nei periodi di festività, o alle attività che producono prodotti gastronomici tipici di questi periodi). Queste ore, che non vengono considerate come lavoro straordinario ma normale e, quindi, devono essere recuperate in seguito, non possono comunque arrivare a superare il limite fissato dalla legge di 40 ore settimanali o i limiti fissati dal CCNL di riferimento. Cosa vuol dire flessibilità oraria? Quando si parla di flessibilità oraria o di orario di lavoro flessibile, quindi, si intende la possibilità di modificare il monte delle ore lavorative. Modifica che può riguardare l’orario di lavoro giornaliero, settimanale o mensile. Le modifiche al normale orario di lavoro sono concesse dalla legge e possono essere decise dall’azienda per far fronte alle proprie esigenze organizzative o alle necessità dei collaboratori. Come indicato anche nel sito del Dipartimento delle Politiche per la Famiglia, la flessibilità di orario può essere concessa secondo diverse modalità, purché vengano rispettati i vincoli imposti dal contratto collettivo di riferimento e dalla contrattazione aziendale. Queste modalità prendono nomi diversi, a seconda di come viene gestita tale flessibilità: flessibilità in entrata e in uscita. Si parla di flessibilità in entrata e in uscita quando ai lavoratori viene concessa la possibilità di entrare e di uscire dal lavoro entro una precisa fascia oraria; orario concentrato. È un orario di lavoro flessibile che permette di ridurre o saltare la pausa pranzo per poter terminare prima la giornata lavorativa; compresenza. Questa tipologia di orario stabilisce che in una o più fasce orarie i lavoratori debbano essere necessariamente presenti in azienda ma, al di fuori di esse, hanno la possibilità di scegliere il proprio orario di entrata e di uscita (sempre rispettando il monte ore giornaliero previsto dal contratto); lavoro ad isole. Prevede che un gruppo di lavoratori si organizzi per garantire il regolare svolgimento dell’attività aziendale e, nello stesso tempo, consentire a ciascuno dei componenti del gruppo di adattare l’orario di lavoro alle proprie esigenze. Queste modalità di orario flessibile possono anche essere affiancate o completamente sostituite dallo smart working, che può essere concesso ai lavoratori per uno o più giorni a settimana. Come funziona nella pratica La decisione di concedere una maggiore flessibilità oraria, per necessità organizzative dell’azienda o per esaudire una richiesta dei lavoratori, per essere messa in pratica deve seguire diversi passaggi: indagine delle esigenze e preferenze dei lavoratori per quanto riguarda l’orario di lavoro; valutazione dei vincoli organizzativi e produttivi di tutti i settori dell’impresa, per verificare con quali modalità sia possibile concedere una maggiore flessibilità oraria; scelta della tipologia di orario flessibile più adatta a coniugare le esigenze produttive e organizzative con le necessità dei collaboratori, basandosi sui dati raccolti in fase di analisi; stipula di un accordo con i rappresentanti dei lavoratori e comunicazione dei nuovi orari a tutti i dipendenti; introduzione della flessibilità oraria, che può avvenire anche in maniera graduale, per testarne l’efficacia; monitoraggio delle nuove misure introdotte, per verificarne l’efficacia; eventuale rimodulazione degli orari di lavoro. Esempi di flessibilità oraria Ecco alcuni esempi di flessibilità oraria concessa solo ad alcune categorie di lavoratori o alla totalità dei dipendenti. Esempio 1 Un’impresa decide che i dipendenti di tutti gli uffici rispettino una fascia di compresenza obbligatoria che va dalle 9 alle 12 al mattino e dalle 16 alle 18 al pomeriggio. Al di fuori di questa fascia, i lavoratori hanno la possibilità di iniziare a lavorare dalle 7:45 alle 8:45 nei giorni dal lunedì al venerdì e dalle 14:45 alle 15:45 nelle giornate in cui sia previsto il rientro pomeridiano. Esempio 2 L’azienda concede delle modalità di flessibilità oraria diversificate a seconda dei reparti, purché venga rispettato il numero di ore giornaliere indicate nel contratto di lavoro. Reparto produttivo: ingresso dalle 7:30 alle 9:30 pausa pranzo. Da 30 minuti a 1 ora nell’orario compreso tra le 12:30 e le 14:30 uscita dalle 16:30 alle 18:00 Reparto amministrativo: ingresso dalle 7:45 alle 8:45 pausa pranzo. Da 30 minuti a 2 ore nella fascia compresa tra le 12:00 e le 14:30 Quali sono i benefici dell’orario flessibile L’orario flessibile è considerato a tutti gli effetti come una misura di welfare aziendale, ed è adottato da un numero sempre più grande di aziende. Questo perché il concetto di “presenza fisica sul lavoro=maggiore produttività” sta venendo gradualmente superato da politiche aziendali che guardano al raggiungimento degli obiettivi fissati come metro per giudicare l’efficienza dei lavoratori. È stato infatti dimostrato che concedere ai lavoratori una certa flessibilità oraria, o la possibilità di lavorare da remoto, stabilendo degli obiettivi ben definiti per valutarne il rendimento, comporta diversi vantaggi tanto per l’azienda quanto per i lavoratori. Tra i benefici più rilevanti per l’azienda ci sono: maggiore responsabilizzazione e fidelizzazione dei lavoratori; riduzione del turnover e dei fenomeni di assenteismo; migliora il clima aziendale e la capacità di lavorare in team; favorisce l’aumento della produttività; migliora l’immagine dell’azienda. Grazie ad un orario flessibile i lavoratori: possiedono una maggiore autonomia nella gestione del lavoro; possono dedicare più tempo alla vita privata e migliorare il work-life balance; godono di un maggiore benessere dovuto al calo dello stress e, di conseguenza, riescono a dare il meglio di sé.   Piani di welfare: la soluzione per gestire il welfare aziendale La flessibilità oraria, solitamente, non è l’unica misura di welfare adottata da un’azienda per migliorare la cultura e il clima aziendale. Di solito, essa si affianca ad altri strumenti quali lo smart working e i vari benefit come i buoni pasto, l’auto aziendale o la previdenza complementare. Perché queste misure risultino davvero efficaci e offrano riscontri positivi all’azienda e ai lavoratori occorre che siano inserite all’interno di un piano di welfare ben strutturato. Non sempre, però, il reparto risorse umane dell’azienda dispone del tempo o dei mezzi necessari a garantire il corretto funzionamento di un piano di welfare. Per questo, molte aziende decidono di affidare la creazione e la gestione del piano a un provider di servizi come Up Day. Day Welfare è la piattaforma di welfare aziendale pensata per affiancare le aziende e i loro HR manager nella gestione dei loro piani di welfare: grazie ad essa è possibile scegliere le misure da inserire nel piano, effettuare le comunicazioni ai lavoratori e visualizzare dati e statistiche sull’andamento dei piani attivi.  
Smart working, telelavoro e lavoro agile
Aprile 15, 2021
Welfare Aziendale

Smart working, telelavoro e lavoro agile: quali sono le differenze?

Sono tutte modalità di lavoro che non prevedono la presenza del lavoratore in azienda. Ma ci sono differenze tra smart working, telelavoro e lavoro agile? E, se sì, quali sono?   Il diffondersi delle nuove tecnologie e le nuove esigenze della società in cui viviamo hanno portato alla nascita di nuove modalità di lavoro. Smart working. Telelavoro. Lavoro agile. Lavoro da remoto. Home working. Sono tutti termini che vengono utilizzati per indicare il lavoro a distanza, senza fare troppo caso alle differenze tra l’uno e l’altro, quasi come fossero sinonimi. Le differenze, però, ci sono eccome! Non solo dal punto di vista linguistico, ma anche, e soprattutto, sotto l’aspetto contrattuale e pratico. Sebbene tutte si basino sul presupposto di un rapporto subordinato, infatti, nella pratica presentano modalità di attuazione molto diverse tra di loro. Per capire quali siano i diritti e i doveri di chi lavora a distanza è importante capire quale sia la differenza tra le varie modalità di lavoro da remoto. In questo articolo ti spieghiamo cosa c’è di diverso tra smart working, lavoro agile e telelavoro. Smart working: ecco cos'è Significato di lavoro agile Cos'è il telelavoro? Significato di lavoro da remoto Differenza tra smart working e telelavoro Differenza tra smart working e home working Lavorare da casa: in quale modalità?   Smart working: ecco cos’è Quella dello smart working è una modalità di lavoro che negli ultimi anni sta diventando sempre più diffusa. Molto apprezzato dai lavoratori, un po’ meno da alcune aziende legate ancora al concetto di presenza in ufficio = produttività, lo smart working prevede di concedere più autonomia al lavoratore. Nelle aziende che adottano questo modo flessibile di lavorare, il luogo in cui i collaboratori di un’azienda svolgono i propri compiti non è più una postazione fissa in ufficio, o, almeno, non solo, ma la propria abitazione, un’altra sede dell’azienda, una biblioteca, uno spazio in coworking. Gli orari non sono più quelli standard dell’ufficio, il classico “dalle nove alle cinque”. È il lavoratore che gestisce le sue ore di lavoro in autonomia. La cosa importante è che svolga la propria attività lavorativa in modo da raggiungere gli obiettivi concordati con l’azienda. Per le sue caratteristiche, lo smart working è considerato una vera e propria misura di welfare aziendale, ed è spesso in cima alla lista delle richieste dei dipendenti delle aziende che svolgono dei sondaggi per determinare quali benefit inserire nel piano di welfare. Significato di lavoro agile Se dovessimo trovare un termine in italiano che meglio si adatti alla definizione di smart working (letteralmente “lavoro intelligente”), questo sarebbe proprio lavoro agile. Quando si parla di lavoro agile, quindi, si parla di smart working. In Italia lo smart working, o lavoro agile, è un modo di lavorare relativamente nuovo, tanto che la normativa che lo disciplina è stata emanata solo nel 2017. La legge n° 81 del 22 maggio 2017, al Capitolo II, individua le linee guida generali per lo svolgimento del lavoro agile: l’attività lavorativa viene svolta in parte all’interno della sede aziendale, in parte al difuori di essa, senza che il lavoratore abbia una postazione fissa; la durata massima dell’attività lavorativa non può superare i limiti di orario giornalieri e settimanali; il datore di lavoro ha la responsabilità della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti che il dipendente utilizza per svolgere le proprie funzioni; il lavoratore può ricevere gli incentivi di carattere fiscale e contributivo legati agli incrementi di produttività, il premio di produttività, insomma, anche quando svolga il proprio lavoro in modalità agile. La normativa poi, rimanda all’accordo individuale tra datore di lavoro e dipendente la determinazione delle condizioni specifiche (compresi i tempi di riposo per garantire la disconnessione) e degli obiettivi da raggiungere.   Cos’è il telelavoro? Il telelavoro è una modalità di lavoro che è nata e si è sviluppata attorno agli anni ’70, soprattutto grazie allo sviluppo e alla diffusione delle nuove tecnologie informatiche. Il telelavoro viene svolto da remoto, solitamente da casa o in un luogo fisico decentrato rispetto alla sede dell’azienda. Il lavoratore, solitamente, ha una postazione fissa e deve attenersi scrupolosamente alle regole e agli orari di lavoro concordati con l’azienda.   Significato di lavoro da remoto Il lavoro da remoto, conosciuto anche come home working, è una modalità di lavoro che può essere definita ibrida, in quanto prevede che il lavoratore svolga la propria attività da casa, talvolta con gli strumenti informatici a sua disposizione, impiegando le modalità e gli orari dell’ufficio. Spesso e volentieri l’home working non viene inquadrato con un contratto ben definito. È la forma di lavoro che è stata più utilizzata dalle aziende durante l’emergenza dovuta alla pandemia da Coronavirus, ma è anche quella che genera più confusione. Questa confusione finisce per aumentare la diffidenza delle imprese verso il lavoro da remoto e per creare situazioni di disagio tra i lavoratori che, spesso, non riescono a dividere la vita privata da quella lavorativa, finendo per ottenere più svantaggi che vantaggi.   Differenza tra smart working e telelavoro Smart working e telelavoro quindi non sono la stessa cosa. Si tratta di modalità di lavoro subordinato che, seppur simili, presentano sostanziali differenze. In particolare, telelavoro e smart working, si differenziano per: sede di lavoro. Con il telelavoro il dipendente può svolgere la propria attività solo in una postazione fissa organizzata secondo i dettami del datore di lavoro e da esso approvata. Con lo smart working, invece, l’attività lavorativa può essere svolta sempre in luoghi diversi, purché il lavoratore abbia con sé gli strumenti necessari; orario di lavoro. Con il telelavoro i lavoratori seguono lo stesso orario dell’ufficio. Con lo smart working, invece, possono scegliere autonomamente quante ore lavorare al giorno; organizzazione del lavoro. Nel telelavoro l’organizzazione del lavoro non cambia, è la stessa dell’ufficio e, per questo, ha maggiori vincoli. Nello smart working, invece, è il lavoratore a gestire in autonomia la propria attività. L’importante è che raggiunga gli obiettivi prefissati. Insomma, possiamo dire che lo smart working sia la versione modernizzata e aggiornata del telelavoro. Il lavoro agile viene infatti considerato un vero e proprio strumento per migliorare il welfare aziendale e aiutare i lavoratori a conciliare meglio vita lavorativa e vita privata.   Differenza tra smart working e home working La differenza tra smart working e home working sta tutta nelle modalità in cui viene eseguito il lavoro. Mentre l’attività di smart working e anche quella di telelavoro sono ben regolamentate attraverso un contratto, quella di home working non è ben definita. Ci si limita a trasferire a casa del lavoratore la stessa attività svolta in azienda. Abbiamo realizzato questa tabella per rendere più facile il confronto tra le varie forme di lavoro da remoto. Smart working o lavoro agile Telelavoro Home working Sede di lavoro In parte in ufficio, in parte a casa o in altro luogo A casa o in una sede distaccata di lavoro A casa Postazione La prestazione lavorativa può avvenire in qualsiasi luogo Il lavoratore ha una postazione fissa, approvata dall’azienda Il lavoratore lavora in qualsiasi punto della casa Orario Il lavoratore sceglie autonomamente l’orario di lavoro Il lavoratore deve seguire lo stesso orario dell’ufficio L’orario di lavoro non è regolamentato ma, generalmente, è lo stesso dell’ufficio Attività Il lavoratore gestisce autonomamente la propria attività per raggiungere gli obiettivi prefissati Il lavoratore non può gestire autonomamente l’attività, ma eseguire gli incarichi che gli vengono assegnati, come se fosse in ufficio Il lavoratore deve eseguire gli stessi incarichi che svolgerebbe in ufficio Rapporto di lavoro Subordinato Subordinato Subordinato   Lavorare da casa: in quale modalità? Capire qual è la differenza tra le varie modalità di lavoro a distanza è importante tanto per le imprese quanto per i lavoratori. Solo così, infatti, si possono fare scelte utili e vantaggiose per entrambe le parti. Anche se durante la pandemia molte aziende hanno ripiegato sull’home working per far fronte all’emergenza, le due modalità di lavoro da remoto più utilizzate rimangono il telelavoro e lo smart working. Quest’ultimo, in particolare, sembra rappresentare il futuro del lavoro a distanza. Questo perché si tratta di un benefit che offre ai lavoratori quella flessibilità necessaria per conciliare la vita lavorativa e quella privata e garantisce alle aziende livelli di produttività elevati. Certo, perché lo smart working rappresenti un vero e proprio valore aggiunto per un’impresa, questa deve cambiare il proprio modo di lavorare, ragionando per obiettivi e non più per numero di ore lavorate. Per raggiungere questo traguardo è fondamentale offrire una formazione specifica a tutti i soggetti coinvolti e creare solidi rapporti di fiducia tra l’azienda e i collaboratori.
Asilo nido e welfare
Aprile 08, 2021
Welfare Aziendale

Asilo nido aziendale, la misura welfare per conciliare lavoro e famiglia

Un sostegno per i lavoratori e le lavoratrici con figli piccoli, un’opportunità per migliorare la reputazione dell’azienda. Ecco cos’è e come funziona l’asilo nido aziendale. Per i genitori che lavorano può risultare difficile conciliare la vita familiare con quella lavorativa, specialmente quando i figli sono molto piccoli. Il rientro al lavoro dopo la nascita di un figlio, infatti, può risultare complicato per diversi motivi. Una delle ragioni che spingono a ritardare il momento di tornare a svolgere la propria attività lavorativa, specialmente per le donne, è rappresentata dalla difficoltà di trovare un sostegno per l’accudimento del bambino. Anche perché i costi per babysitter e asilo nido rappresentano una voce di spesa consistente, che incide in modo significativo sul bilancio familiare. Sono sempre di più le aziende che decidono di sostenere i collaboratori con figli piccoli offrendo loro dei benefit specifici. Uno di essi è l’asilo nido aziendale. Ma cos’è di preciso, il nido aziendale? Cos’ha di diverso da un asilo nido pubblico o privato? Quali sono i vantaggi nell’aprirlo? Ecco le risposte a tutte le domande su questo benefit apprezzato dai lavoratori ma ancora poco diffuso. Cos’è l’asilo nido aziendale? Come funziona un asilo nido aziendale? Perché le aziende dovrebbero avere l’asilo nido? Nidi aziendali: ci sono degli svantaggi? Prima di aprire un asilo nido aziendale… Le alternative all’asilo nido aziendale Cos'è l'asilo nido aziendale? L’asilo nido aziendale è un benefit fornito dalle aziende ai propri dipendenti che hanno figli neonati. Si tratta di una struttura che si trova all’interno della sede aziendale, o nelle vicinanze della stessa, di cui possono usufruire i figli dei dipendenti dell’azienda che abbiano un’età compresa tra 3 e 36 mesi. È in tutto e per tutto uguale a un asilo nido pubblico o privato. Le motivazioni che spingono un’impresa a offrire questo tipo di servizio ai propri collaboratori sono da ricercare nella maggiore attenzione che le aziende riservano al benessere dei dipendenti. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una contrazione progressiva e inesorabile del welfare pubblico, con una disponibilità sempre più ridotta dei servizi essenziali che non basta per far fronte alla domanda crescente. È a questo punto che entra in gioco il welfare aziendale: grazie ai servizi di welfare messi a disposizione dalle aziende, i lavoratori possono conciliare più facilmente la vita lavorativa e quella privata. Tra questi servizi, oltre a benefit quali buoni pasto, mensa aziendale, previdenza complementare ci sono anche quelli dedicati al sostegno della maternità e della famiglia, come gli asili nido, che in tutto il territorio nazionale sono pochi e costosi e spesso inaccessibili. Come funziona un asilo nido aziendale Un asilo nido aziendale funziona proprio come un normale asilo nido. L’unica differenza è che si tratta di un servizio fornito dall’azienda per cui si lavora. Secondo la normativa, una struttura di questo tipo deve garantire alle famiglie 42 settimane di apertura all’anno per 5 giorni a settimana e un orario che va da un minimo di 6 fino a un massimo di 11 ore al giorno. Solitamente, gli orari di un asilo nido aziendale sono più flessibili, per andare incontro alle esigenze dei lavoratori e le rette sono nettamente più basse rispetto a quelle delle strutture pubbliche e private. Per quanto riguarda la gestione, gli asili nido aziendali si dividono in tre categorie: asili nido a gestione diretta; asili nido a gestione indiretta; asilo nido interaziendali. Le strutture a gestione diretta si trovano all’interno della sede dell’azienda e sono gestite da personale assunto dall’impresa e che fa capo ad essa. I nidi a gestione indiretta si trovano anch’essi all’interno della sede dell’azienda ma sono gestiti da società esterne specializzate in questo campo. Gli asili interaziendali sono strutture che possono essere situate anche in un luogo diverso dalla sede aziendale poiché, come suggerisce il nome stesso, accolgono i figli dei collaboratori di più aziende. Perché le aziende dovrebbero avere l'asilo nido? L’apertura di un asilo nido aziendale comporta numerosi vantaggi non solo per i genitori che usufruiscono del servizio e per i bambini che lo frequentano, ma anche per l’azienda stessa. I vantaggi per i genitori e i bambini I genitori lavoratori che hanno la possibilità di iscrivere i propri figli all’asilo nido aziendale hanno i seguenti vantaggi: possono gestire al meglio il tempo dedicato al lavoro, grazie agli orari più flessibili dell’asilo; risparmiano sulle spese destinate all’accudimento dei figli, perché le rette dei nidi aziendali sono generalmente più basse rispetto a quelle delle strutture pubbliche e private (il risparmio può arrivare anche a 300/400 euro al mese); si sentono più tranquilli, sapendo che i bambini sono ben accuditi in una struttura con personale qualificato, sono vicini a loro e traggono vantaggio dal frequentare la scuola. Per i bambini, infatti, frequentare un asilo nido ha innegabili benefici. Grazie ad esso possono: imparare a socializzare fin da piccolissimi; imparare a condividere i giochi e gli spazi; apprendere la capacità di adattarsi ad ambienti e situazioni nuovi; acquisire sicurezza in sé stessi; acquisire maggiore autonomia; sviluppare al meglio la creatività e le proprie capacità cognitive.   I vantaggi per le aziende Offrire dei servizi di welfare ai propri dipendenti è sempre vantaggioso per le aziende. In particolare, mettere a disposizione dei propri dipendenti dei servizi a sostegno della vita familiare, permette di: migliorare la reputazione dell’azienda, che apparirà attenta ai bisogni dei lavoratori e pronta a sostenere il lavoro femminile; attrarre i talenti del settore, che riconoscono il valore di un’azienda attenta ai bisogni dei collaboratori; ridurre l’assenteismo causato dalla difficoltà, per i dipendenti, di conciliare famiglia e lavoro o dal prolungamento dei congedi di maternità; aumentare la produttività.   Nidi aziendali: ci sono degli svantaggi? L’asilo nido aziendale, pur essendo un servizio molto apprezzato dai lavoratori, ha qualche svantaggio. Per questo a volte le aziende abbandonano il progetto o ripiegano su altre soluzioni. Non si parla solo di costi di gestione, che talvolta risultano alti, o della scarsità di finanziamenti pubblici. Per alcune famiglie anche la retta agevolata di un nido aziendale rappresenta comunque un costo difficile da sostenere. Anche la distanza tra la propria abitazione e la sede dell’azienda pesa sulla decisione di usufruirne, specie se una parte del lavoro viene svolta in smart working. Così come gli orari che, pur essendo flessibili, a volte non combaciano con le esigenze dei genitori. Tutti questi fattori possono incidere negativamente sul servizio che, se riscuote scarso successo, viene abbandonato.   Prima di aprire un asilo nido aziendale… Come ogni altro servizio di welfare aziendale, anche l’asilo nido non può essere avviato senza che il datore di lavoro abbia analizzato attentamente le caratteristiche e i bisogni dei propri dipendenti. Prima di avviare il progetto si deve: conoscere il numero di dipendenti che hanno figli in età prescolare; sapere quanti di loro sono pendolari e abitano lontano dalla sede aziendale; tenere conto delle ore svolte dai lavoratori in smart working; effettuare un sondaggio per capire a chi servirebbe davvero questo servizio. Una volta ottenuti questi dati, si può decidere se aprire o meno un asilo aziendale e con quale formula. Sempre più aziende scelgono la formula dell’asilo interaziendale, o danno la possibilità di usufruire del servizio anche ai bambini residenti nel territorio comunale, per ammortizzare i costi e migliorare la propria reputazione sul territorio. Le alternative all’asilo nido aziendale Può accadere che, dopo aver analizzato la situazione della propria azienda, il datore di lavoro si renda conto che il nido aziendale non possa rispondere in modo adeguato ai bisogni dei propri dipendenti. In questo caso può ripiegare su altri servizi di welfare che abbiano lo scopo di sostenere la vita familiare dei lavoratori. In particolare, tra i benefit più apprezzati dai genitori che lavorano, ci sono: banca ore e flessibilità dell’orario di lavoro; concessione del part time; smart working; bonus per asilo nido e babysitter, che possono essere erogati sotto forma di voucher welfare.
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